lunedì 30 novembre 2009

Sag mir wo die Blumen sind?

Riporto in calce, la lettera di Pier Luigi Celli a suo figlio, apparsa sul sito di "Repubblica" in data odierna.

Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.

Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.

Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E' anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l'Alitalia non si metta in testa di fare l'azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell'orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d'altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l'unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.

Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po', non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all'infinito, annoiandoti e deprimendomi.

Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.

Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.

Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.

Preparati comunque a soffrire.

Con affetto,
tuo padre

Ora. Chiarisco immediatamente il mio pensiero dicendo che trovo abbastanza ignobile questa presa di coscienza posticcia, da parte di un dinosauro come Celli, schieratosi per sentire paterno contro l'immatuabile realtà italiana che svilisce i talenti, ma dal canto suo facente parte, lui come l'elitaria istituzione universitaria di cui è a capo, proprio della frangia peggiore del settarismo spicciolo su cui si regge gran parte del "prestigio" del sapere: l'università privata. Inaccessibile non per carenza di merito ma per carenza di liquidi. Trovo ipocrita il consiglio del padre reo confesso, vorace cannibale, appartenente a quella generazione che è stata il fiore all'occhiello del belpaese ma che si porterà più di uno scheletro nella tomba, lo scheletro di una progenie imporevita di tutto, persino della conoscenza acquisita negli anni di studio. Ma chi più del figlio di Celli trova la strada spianata al florido avvenire? E poi mi si viene a parlare di resistenza, di spirito di conservazione, di lotta, e non ho creduto un solo istante al fatto che ci fosse una certa dose di verità nello stoicismo, nella virtù di questa figliolanza dotta e sapida. Che almeno tacessero invece di infarcir di lagrimevoli suppliche il fatto quotidiano e darlo in pasto alle frustrazioni di chi, per davvero, si è visto la strada sbarrata più volte nella vita e sempre a torto.

Detto questo mi trovo, parimenti, in disaccordo con chi predica la cessazione dello spopolamento, il bloccaggio del flusso migratorio verso l'estero che ci sta portando, chi per un motivo chi per un altro, in giro per il mondo. Siamo ancora incosapevoli se valga o meno la pena di menare battaglie in terra straniera, nonostante ciò credo che tutti abbiamo ben chiaro che il ritorno equivarrebbe a una forma di abrutimento difficilmente sopportabile. E non crediate che all'estero si guadagni chissà quanto di più, o che la vita riservi solo rose e belle cose a chi ne sa cogliere gli attimi: no. Vivo la prima esperienza di semiautosufficienza da quando sono nato e ciò è per me gioia e vanto. Ho imparato tante cose, in primis la morigeratezza, poi l'umiltà, infine la razionalizzazione del tempo, da non buttare in lotte dal sapor donchisciottesco, contro chi, se alzi la voce, fa in modo di aumentare il volume della propria per non sentirti parlare. Realizzo, e non troppo a malincuore che questa nuova indipendenza laggiù dove sono nato mi sarebbe stata preclusa per molto tempo ancora: sarei rimasto a casa comodo comodo, a farmi servire nell'attesa di una chiamata dal Ministero della pubblica istruzione, o avrei impiegato il mio tempo in qualche attività postlaurea quali master e compagnia, che alla fine dei conti sarebbero valsi poco o niente, dato che tutti richiedono, per l'assunzione, una esperienza lavorativa pregressa; il paradosso è che non c'è nessuno che ti offra un lavoro per farti acquisire tale esperienza. La gente non crede pià che si possano imparare i mestieri e di conseguenza ritiene che la formazione sia tutto, e dove la formazione non arriva ci pensa la spinta di turno, che per citare Guzzanti/Vulvia: "ma chi erano coloro che spingevano i cavalieri a intreprendere queste pericolosissime imprese? Spingitori di cavalieri, su Rieducational Channel", arriva sempre a chi è ben ammanicato, e si fa piazzare marciando sullo scalpo degli altri cento, mille più bravi, ma più rozzi di lui. Per un ambito chiuso come quello che ho scelto, restare avrebbe comportato vivere nella precarietà sino a 40 anni; non so cosa succederà domani, se la mia richiesta di reimpiego come lettore verrà accettata, fattostà che sabato, lasciando l'aula 311 del Lycée Condorcet, i ragazzi di Première L e ES mi si sono stretti intorno, proprio sulla soglia, e mi hanno confessato: "non se ne vada l'anno prossimo, resti. Perché con lei si impara molto di più che con un normale professore e soprattutto a noi non pesa affatto". Una frase del genere nell'italietta piazzista e palazzinara non l'avrei udita se non in tarda età, e quella classe dove mi ascoltano lì in Rue du Havre, in uno dei templi della storia culturale francese che ha formato tra gli altri Paul Fort e Alfred Jarry, in Italia l'avrei vista col binocolo, mordendomi le nocche delle mani per non aver avuto il coraggio di scappare da quella prigione a forma di stivale, in cui il mestiere che faccio è considerato inadeguato, è mal retribuito, è il simbolo dello sfruttamento intellettuale. Non ci tengo a formare le generazioni italiane future, i loro padri mi danno il voltastomaco, e pur non essendo la Francia migliore, almeno non mi sembra di essere rinchiuso tra quattro mura, mi sembra di respirare, e mi viene voglia di rimanere qui, e di lottare per cambiare quelle cose che mi sono indigeste. "Société italienne tu ne m'auras pas", per parafrasare Rénaud, e a chi mi desse del rinnegato, dell'apolide, del vigliacco io rispondo di non avere una patria, di non essermi mai sentito appartenente a nessuna nazione. La mia casa è dove risiede la mia famiglia: se la mia famiglia abitasse in Tibet la mia casa sarebbe il Tibet. Ed ora che assaporo la libertà per la prima volta, non ha più valore il discorso che ho appena formulato, perché "la mia casa è qui, qui e da nessun'altra parte"..."Someone stop me. Oh please, someone just try and stopo me!" (Katharine Hepburn in "Holiday" di George Cukor, 1938).

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